Aligi Sassu: il sacro e la pittura Alcuni anni orsono ho scritto che “al di là dei temi figurali di volta in volta affrontati, le intenzioni espressive, le suggestioni emotive di Sassu, e perfino la sua probabilità esistenziale di artista, sono sempre state affidate al linguaggio della pittura”. Aligi Sassu, La Madonna dello Splendore, 1994, acrilico/cartone, 36x27 cm. Alle sole capacità evocative e memorative di questo linguaggio, voglio dire, ed aggiungevo che nel suo caso questo fatto “assume un aspetto perfino clamoroso” perché pare che “l’artista si sia in effetti confrontato con il ‘rosso’ e il ‘verde’ oltre che con gli uomini, i miti ed i paesaggi”.E’ tuttavia non si può fare a meno di notare che, a partire dalla “Ultima cena” del 1929 — quando l’artista aveva dunque solo diciassette anni — i temi “sacri” entrano prepotentemente nel mondo immaginativo di Aligi Sassu per non uscirne mai più, segnando anzi il suo percorso espressivo con una presenza che risulta per certi versi “ossessiva”, come egli stesso ha affermato, specie se si tiene conto — è stato già notato — della sua “ferma coerenza ideologica laica”.Si potrebbe allora pensare che forse Aligi Sassu non si è nemmeno posto il problema del sacro che è entrato spontaneamente nel suo mondo, ma si sia semplicemente interrogato sul significato della vita e della morte, cercando naturalmente le risposte con i mezzi a lui più congeniali, quelli della pittura, dunque dell’arte e della poesia immaginativa.La “Deposizione” del 1932 e il “Cristo risorto” dello stesso anno, dichiarano con tutta evidenza questo suo atteggiamento ed egli stesso ha dichiarato una volta che, a partire da quella deposizione, il tema della morte di Cristo era divenuto stabilmente “centrale” nella sua ricerca espressiva.Con gli occhi e l’animo rivolti ai suoi “riferimenti storici” formalmente più coinvolgenti — penso a Delacroix ed Ensor — è allora evidente che per Sassu “lo spirituale nell’arte può coincidere con la stessa rappresentazione del sacro”.Si tratta in effetti di un interrogativo che affiora in maniera assillante in tutta l’arte di questo secolo che ha perduto la “centralità” di un tempo, quando essa “raccontava” i grandi eventi della storia civile e religiosa e dava nel contempo volti “credibili” ai suoi protagonisti.Nella “rappresentazione visiva” della straordinaria vicenda del Cristo non vi è però alcuna intenzione “teatrale” da parte dell’artista — come pure qualcuno ha scritto — perché è evidente che Aligi Sassu assume quella tragedia come la “tragedia universale dell’uomo”.La figura del Cristo in croce si presenta infatti, nelle opere di Sassu, con le sembianze drammatiche “dell’uomo sofferente ed eroico”, dunque nella dimensione di una tragedia cosmica ed irreparabile.La connotazione “scenografica” — di cui certo Sassu ha subito in alcuni casi la fascinazione — è semmai riscontrabile nei “Concili”, a partire da quello “scandaloso” del 1941-42 per finire con quello del 1972 altrettanto disturbante.In questi dipinti per davvero Aligi Sassu “mette in scena” una rappresentazione barocca nella quale, ancora una volta, è però la pittura l’unica e vera protagonista dell’immagine.Lo è anche nelle crocifissioni, naturalmente, ma in questi casi è però evidente l’accentuata partecipazione emotiva dell’artista all’evento rappresentato, sebbene egli ricerchi consapevolmente in ogni occasione le diverse, più accese e drammatiche suggestioni espressive che la “scena” suggerisce ed immette nella sua pittura. Riflettendo sulla presenza del sacro nella pittura di Sassu, bisogna dunque riflettere, contemporaneamente, anche sulla espressività della sua pittura nell’immaginazione del sacro, perché è evidente che nel suo caso i due termini non possono essere disgiunti, considerati separatamente come fossero indipendenti l’uno dall’altro.La verità è che essi, come è sempre accaduto nella grande storia dell’arte, entrano in una relazione di interdipendenza misteriosa e segreta, istintiva, di cui lo stesso artista forse non sa dar conto, non ha consapevolezza. Naturalmente alcuni temi — quale la rappresentazione della morte di Cristo come metafora della morte dell’uomo — contengono inevitabili ed inquietanti interrogazioni alle quali l’artista non può sottrarsi, non può assolutamente sfuggire.Bisogna tuttavia anche osservare che, nel caso di Aligi Sassu, questo avviene con la stessa intensità emotiva — sebbene in un arco di tempo più circoscritto — anche in alcuni temi figurali laici come la drammatica “Fucilazione delle Asturie”.La sua “Deposizione” del 1972, però, contiene molti elementi figurali e formali in comune con quella del 1941-42, quasi che l’artista, a trent’anni di distanza, continui ad interrogarsi disperatamente sullo stesso angosciante ed irrisolto problema.La figura del Cristo ha continuato cioè per un lungo tempo a “provocare” Sassu con una dualità immaginativa che “vede” nello stesso momento — e nella stessa “scena” — da un lato l’urlo e la disperazione, dall’altro la dolorosa rassegnazione, l’inevitabile accettazione del destino dell’uomo.La verità è che il lavoro di Sassu ha certamente molto a che fare con “l’uomo senza contenuto” del nostro tempo, ed essa reclama perciò una forte sacralità per esistere e resistere, per riaffermare per tale via la centralità esistenziale ed espressiva dell’artista e dello stesso uomo.Ma è qui, allora, che l’opera di Aligi Sassu risulta per davvero “scandalosa e disturbante”, giocata sulla pelle dell’uomo e dell’artista, connotata di sacralità, gridata com’è con il solo silenzio della pittura, con la sola fede nell’arte. Venezia, 4 giugno 1997 Enzo Di Martino |