Antologia critica “L’appellativo di Scuola di Posillipo per un gruppo di pittori che dipingevano le bellezze del paesaggio campano, spiagge incantate e ruderi carichi di suggestione, isole di leggenda e Vesuvio fiammeggiante, ma anche case e strade, e mare e campagne e scene di vita popolare. Horace Vernet, Cavaliere ed acquaiola, olio su tela, cm. 40x36, firmato. Lo coniarono i pittori della corrente accademica, i pittori cesarei, favoriti della corte borbonica, intenti a produrre i loro smisurati quadroni di storia e mitologia, con sereno disinteresse per le ragioni della pittura o della sensibilità. Gli accademici, come ultimo apporto provinciale della ventata neoclassica: e non in quanto professori dell’Accademia (ché poi, molti di loro, dei pittori di Posillipo per l’Accademia ci passarono, ad occupar cattedre di prestigio: Pitloo, Smargiassi, Duclère; solo Gigante restò sempre fuori, né allievo né docente), ma quali conservatori di una convenzione che questi nuovissimi paesaggisti da un momento all’altro disconoscevano e contestavano. Anzi fu per i pittori di Posillipo una vittoria fin troppo facile perché, come d’incanto — i tempi erano già maturi — potettero inserirsi nella vita artistica ufficiale della città, prediletti dai nobili e dalla Corte: Gigante era intrinseco di Palazzo e maestro delle principesse nelle loro velleitarie esperienze di pittrici dilettanti”. R. CAUSA, La Scuola di Posillipo, Napoli, 1967, p. 9. “I «posillipisti» si pongono in una posizione cosciente di rinnovamento rispetto alla pittura ufficiale; ed in ciò appunto consiste il fatto nuovo: una schiera, se vogliamo abbastanza sparuta, di artisti dediti ad un genere «minore» acquista coscienza della novità e del valore del proprio operare non solo in rapporto allo sviluppo precedente del «genere» stesso, ossia non solo novità nel campo della veduta, vista come una delle tante possibilità di produzione di valori artistici separate le une dalle altre, ma altresì in rapporto alla più generale situazione dell’arte tutta, che in blocco, assieme all’istituzione che la rappresenta e la regola, viene rifiutata nei suoi valori tradizionali”.S. SUSINNO, La veduta nella pittura italiana, Firenze,1974, p. 45. “Il naturalismo nordico «nell’arte napoletana fu qualcosa di secolarmente inconcusso. A Napoli, Van Eyck piace più di Masaccio: Van der Weyden più di Piero della Francesca» (Longhi). Né il gusto naturalista, a Napoli, s’era disperso sotto il governo accademico... Giuseppe Bonolis, Testa di giovane, olio su tela, cm. 26x20. L’azione dell’olandese Pitloo sui pittori della «Scuola di Posillipo», va poco oltre l’apprendimento di modi da lui trasportati a rinfrescarne il «vedutismo» spicciolo e commerciale; secondo quanto, a sua volta, egli aveva dedotto dall’esempio, cresciuto con buon nutrimento italico, del Wilson, del Crome ed altri precursori del paesaggio romantico inglese. E questo non si intende a diminuzione dei meriti del Pitloo, che spesso sa offrirci graziose sorprese. Ma sarebbe assurdo insistere troppo sul valore del suo apporto; dal momento che il terreno di sviluppo della nuova pittura napoletana si ritrovava, naturalmente e originalmente, nel Seicento locale; e che su cotesto terreno essa crebbe i migliori frutti”. E. CECCHI, Pittura italiana dell’Ottocento, Milano, l946. “L’olandese Antonio Sminck van Pitloo ... cominciò intorno al 1825 ad ispirarsi all’aperto, coi suoi scolari, eseguendo piccole impressioni dal vero, schizzate e macchiate alla brava, senza per altro dimenticare la tradizione, né le esperienze giovanili compiute in Olanda o a Parigi, e facendo attenzione alla paesistica inglese e francese: del Turner che fu a Napoli nel 1823 (e non poté passarne inosservata la grande esposizione a Roma del ‘28), del Constable, del Bonington (a Napoli nel ‘24) e del Corot che visitò il Golfo partenopeo già durante il suo primo viaggio in Italia, tra il 1817 e il ‘21, e vi ritornò nella primavera del ‘28 per soggiornarvi”.F. BELLONZI, Architettura, pittura, scultura dal Neoclassicismo al Liberty, Roma, 1978, p. 96. “Giacinto Gigante ricercò sempre non il «tono» (nel senso che avranno più tardi queste parole per l’impressionismo) ma piuttosto il lirismo del non finito, dell’abbozzo e dell’effetto, cosa che ovviamente gli riusciva benissimo nell’acquerello e gli riusciva meno bene o non gli riusciva affatto negli oli, dove non seppe mai andar molto oltre le gamme (piuttosto povere) derivate dal Pitloo e dagli altri contemporanei, e il verismo a distanza della veduta tradizionale. In conclusione l’arte del Gigante costituiva una logica riduzione meridionale e italiana del paesismo eroico romantico”.C. MALTESE, Storia dell’arte in Italia 1785- 1943, Torino, 1992. “La base culturale del Gigante è più larga: la sua costruzione della veduta si fonda essenzialmente sulla poetica settecentesca inglese del «pittoresco». I rapporti di distanza non vengono più ordinati lungo le linee convergenti dal primo piano all’orizzonte, ma combinati secondo la qualità delle cose, cioè secondo la diversa reazione alla luce di ciò che è solido e opaco (alberi, rocce) o mobile e specchiante (acque) o trasparente (atmosfera). Poiché le possibilità di variazione sono, così, molto maggiori che nella rigida organizzazione prospettica, la sensibilità dell’artista è infinitamente più libera: anche nella scelta del «motivo», non più per il suo effetto scenografico o panoramico, ma per la sua forza di sollecitazione dell’estro del pittore”.G. C. ARGAN, L’arte moderna 1770- 1970, Firenze, 19742. “La scuola di Posillipo nasce con precise istanze di ricerca, e si svolge in modi di linguaggio sempre sostenuti da una esplicita necessità di rinnovamento, al passo con le più attuali espressioni dell’arte europea; e tanto appare palese quando si restringe il campo di indagine ai due protagonisti, Pitloo e Gigante: specificando però che di tutti i pittori partecipi alla Scuola — persino per una certa parte in Giacinto Gigante, «aliquando dormitat Homerus» —, esiste una produzione marginale, povera d’ingegno, tirata via per il turista di gusto facile, legata solo al mercato, ad una più elementare esigenza di illustrazione. Vincenzo Franceschini, Radici, olio su tela, cm. 24x16. Ma questa non è la caratteristica saliente della Scuola, anzi potremmo dire che si tratta di mera sopravvivenza di una vecchia tradizione del vedutismo napoletano, vecchia e gloriosa tradizione, ormai tutta percorribile, a partire dal Seicento, lungo l’intero arco del Settecento, e fino ai primi anni del secolo nuovo, quando la Scuola di Posillipo non era ancora configurata”. R. CAUSA, La Scuola di Posillipo, Milano, 1967. |